La Storia
 
 
La Colonia Agricola di Carozzano (oggi Località Carossano), ideata e fondata nel 1853, ad opera di Don Giovanni Cocchi, fu il primo edificio di tal genere in Italia, nella cui costruzione confluirono le esperienze raccolte in Francia, Svizzera, Belgio e Germania. Nella mappa rilevata nel 1880 ed aggiornata al 1923, Foglio Buttigliera d’Asti, n.56 della Carta d’Italia, si presenta quasi come una caratteristica cascina ad L, ma circondata da mura,
 
Dedicata al recupero di giovani discoli ed abbandonati, ospitò fino ad un centinaio di soggetti all’anno, impiegandoli in agricoltura, falegnameria, sartoria, bachicoltura e realizzazione di cordami. Nel 1877, in seguito a sfortunate vicende gestionali e meteorologiche, venne chiusa e l’attività trasferita a Bruere, nelle vicinanze di Rivoli. Venne acquisita dall’Avv. Giovanni Battista Musso di Genova per la somma di Lire 115.000 e, in seguito, la proprietà venne frazionata.
 
Il recupero degli edifici che compongono l’antico insieme costituito dalla casa principale, dalle case delle famiglie (in famiglie si dividevano gli “ospiti” della Colonia) è stato eseguito senza una logica coerente, in tempi diversi. Pertanto, accanto a recuperi di discreta fattura si collocano edifici affetti da contaminazioni sia formali che materiali ai quali si sono aggiunte nuove costruzioni, all'insegna dell'omologazione a modelli residenziali periurbani.
 
Rimane un edificio, tra le cui pertinenze vi è una tettoia di singolare fattura, se si pensa al contesto agricolo attuale, ma ben decifrabile in relazione alla destinazione degli edifici dell’epoca. Capannone per la ricreazione? Locale per la celebrazione della S. Messa, poi sostituito da una Cappella oggi distrutta? Il ritrovamento dei progetti (firmati dall’On. Cesare Valerio) potrà completare le conoscenze sulla destinazione d’uso dei locali, oggi ricostruite grazie a bibliografia e racconti degli abitanti del luogo, in cui l’imprecisione (involontaria) deriva dalla trasmissione orale di notizie incomplete, romanzate, inventate. (La storia dell’edificio e delle vicende ad esso collegate, inserite nel contesto della Torino pre e post unitaria meriterebbe uno studio a se stante).
 
Si tratta di una località che ha una Storia, sviluppatasi a partire da un’epoca in cui Torino era capitale non solo amministrativa, ma culturale. L’epoca che ha visto l’azione di grandi figure: nel fronte laico Cavour ed altri illuminati uomini di Stato e nel clero Giuseppe Cafasso, Giovanni Cocchi, Giovanni Bosco, Leonardo Murialdo, Giuseppe Cottolengo, quasi tutti noti come i Santi del sociale che, a partire da una risposta alle esigenze derivanti da una rapida urbanizzazione di Torino, attorno alla metà del 1800, hanno creato strutture, organizzazioni e reti (Congregazioni religiose) oggi diffuse a livello mondiale. 
 
E’ l’epoca in cui hanno preso forma interventi innovativi prodigiosi nelle tecnologie, nelle infrastrutture ed anche nel sociale che si sono propagati nel tempo e nello spazio. Uomini di fede e di azione che hanno colto l’importanza del collegamento tra l’attività materiale e quelle di studio e relazione, dei viaggi e del trasferimento delle conoscenze, in un periodo di grande fermento per la Storia d’Italia in cui nobiltà, borghesia e clero dibattevano vivacemente tematiche che ancora mantengono un’elevata priorità.  
 
Rispettando e valorizzando la Storia che si avverte tra le pareti dell’edificio e che traspira dagli oggetti di cultura materiale rinvenuti, possono derivare le idee per farlo rivivere. E se di luogo di operosa applicazione si trattava, animata da infaticabili Maestri e vivaci discepoli, questo si può oggi riprodurre, su tematiche nuove, aderenti ai nostri tempi, giocando con le dinamiche già attive nel territorio dal quale si dischiude il Monferrato.
 
A partire dal 2003 è iniziato il recupero della parte abitativa, non ancora completato, secondo criteri di coerenza nei materiali e nello stile con gli edifici rurali tradizionali, senza trascurare, però che nel plasmare le scelte stilistiche vi fu l’intervento di personaggi della Capitale, tra i quali l’On. Cesare Valerio, scossi dal vero motore di tutte le attività, Don Giovanni Cocchi.
 
Don Giovanni Cocchi, “promotore, fondatore ed anima dell’Opera degli artigianelli” nacque a Druent (Torino) il 2 luglio 1813. Sacerdote vulcanico e pieno di energie è relegato quasi nell’oblio, affettuosamente ricordato nei testi sull’opera di Leonardo Murialdo, è offuscato da giganti alle cui fortune contribuì senz’altro il carisma, aiutato dalla prudenza e dalla capacità di calcolo nel tessere relazioni con i potenti benefattori e con i vertici del clero piemontesi. Una figura a torto considerata minore, che merita di essere rivalutata per le innovazioni che portò nel panorama torinese. Dalla sua iniziativa derivò il primo oratorio a Torino: nel 1840, in regione detta Moschino, sulla riva sinistra del Po, dava inizio all’oratorio dell’Angelo Custode. “L’anno successivo l’Oratorio si spostò in Vanchiglia, sotto la tettoia di un orto. Nel cortile attiguo egli eresse una Cappella, impiantò un teatrino, si procurò attrezzi ginnastici, che erano attrattiva del tutto nuova a Torino….. Nel 1849, dopo alcuni mesi di sospensione dell’attività dovuta ai tristi momenti successivi alla ripresa della 1a guerra per l’Indipendenza, … l’Oratorio fu affidato al teologo Borel sotto al direzione di Don Bosco”.
 
Diede vita all’Opera degli Artigianelli. “Le vicende disastrose della  1a guerra d’indipendenza nazionale e le relative tragiche conseguenze per le famiglie e lo stato generale delle cose, sia per l’accresciuto costo della vita che per il calo della pubblica moralità, avevano moltiplicato il numero dei giovani “abbandonati, senza lavoro, senza guida e senza un tetto”. Si vedevano allora a detta di Don Cocchi “dozzine e dozzine di tali giovanetti (…) starsene da mane a sera inoperosi nelle piazze e per le strade, urlando, schiamazzando, insudiciando le muraglie, insultando chi passa, dare col loro procedere una trista idea non solo della cura dei cittadini torinesi per la loro figliolanza, ma ben anco della civiltà del paese”. Nel 1849 Don Cocchi “lanciò un proclama a tutta la cittadinanza per la fondazione di una “società di buone persone, e principalmente sacerdoti e giovani secolari, i quali prendessero a cuore l’incarico di provvedere ai bisogni di tanti ragazzi, orfani principalmente, abbandonati (…) e dare loro una qualche educazione, provvederli dei mezzi onde avviarli a qualche professione, a qualche mestiere.” Da qui nacque l’Opera degli Artigianelli. Il 1° gennaio 1850, dopo che Don Cocchi ebbe accettato quattordici ragazzi raccomandatigli dalla Società di patronato per i giovani usciti dal carcere correzionale, detto Generala, l’istituzione nascente prese il nome di collegio degli Artigianelli.
 
Nel 1852 lasciò il Collegio per dedicarsi completamente alla realizzazione di una Colonia Agricola, che raccogliesse i ragazzi più piccoli e più discoli dell’Opera. Don Cocchi visitò alcune istituzioni agricole in altri paesi d’Europa, intraprendendo un viaggio che lo portò in Svizzera, Francia, Belgio ed Inghilterra.
 
Il verbale del 7 ottobre 1852 dà notizia che il Conte Michaud de Beau Retour offriva in affitto la sua villa, in Cavoretto e che il Cav. Giuseppe A. Cotta, senatore del Regno, si offriva di pagare tutto il prezzo di compera delle Cascine Carossano, sui confini di Moncucco verso Chieri, di proprietà del governo e messe da questo all’asta.
 
In Novembre Don Cocchi partì per Cavoretto, “per fare di Cavoretto il tirocinio su piccola scala e, dopo nove anni, trasportare la Colonia Agricola nel podere di Moncucco”.
 
Nuovi fatti indussero, appena dopo un anno, a trasferire l’attività a Moncucco. Don Cocchi vi si trasferì il 24 novembre 1853, con i primi 25 coloni, cresciuti fino a 70 nel 1861. Il podere misurava ha 46,10 ed era stato pagato la bella somma di Lire 48.500.
 
“Là tutto era da farsi: là allora non vedevi che vasti campi per poco a dissodarsi, vigne mal poste o morenti a rimpiantarsi, la casa stessa una abituro dal contadino, anzi una macerie non solo a ristorarsi ma ad ampliarsi; poi ogni cosa a provvedere, e bestiame e foraggi e attrezzi d’ogni genere”.
 
Sull’esito dell’attività della Colonia agricola si sofferma nel 1861 la Relazione sullo Stato del Collegio degli artigianelli in Torino e sulla Colonia Agricola di Moncucco, preparata dalla Direzione superiore dell’Associazione di Carità, nella quale, tra l’altro, si legge “…studii e viaggi si son fatti per ciò, e progetti e calcoli e sapienti disegni parecchi già sono preparati a cura di tale uomo, che ama singolarmente noi e i nostri fanciulli, come tutte le opere che sono ispirate dalla filantropia, voglio dire l’egregio Ing. e Deputato Cesare Valerio…”
ed aggiungendo:
“Ora al contrario chi visitasse quel tenimento, lo vedrebbe da capo a fondo innovato: vedrebbe non senza meraviglia quasi nel centro di esso andarsi erigendo un edificio semplice sì ma ampio, disegnato con sapienza grande da quell’ottimo ingegnere Cesare Valerio, che io non so ringraziare, né egli il vuole, dicendo con gran cuore che il suo premio è l’amore che porta a noi e ai poveri nostri fanciulli; vedrebbe lunghi e compiuti filari di viti novelle, piantate a dovere e con arte; vedrebbe qui ampi vivai di pianticelle, là schierate belle file di alberi fruttiferi e di gelsi, dono questi ultimi in gran parte del cav. Senatore Giovanni Audifreddi, che quanto è perito agronomo, tanto fu per noi savio consigliere e benefattore munifico, vedrebbe poi dovunque smossi e colti e fecondati i campi, e popolata di utili animali di ogni sorta la tenuta stessa, e in fine arricchita di una fornace e di quant’altro occorre per la fabbricazione di tubi che si usano nel così detto drenaggio o fognatura e ciò per provvida munificenza del signor Ministro dell’agricoltura, che ci inviò perfino chi diriga ed insegni ai nostri coloni i lavori di quella nuova ed utile industria; e tutto questo vedendo non potrebbe a meno rallegrarsi con chi seppe con fatiche e sacrificii personali inenarrabili dar vita a tutte queste opere e sostenerle tanti anni e compierle.”
 
Nella relazione del 1862 viene precisato “Ma qui dobbiamo notare con riconoscenza la somma di L. 3600 che venne assegnata dal Ministro d’Agricoltura al nostro Istituto affine di promuovere un nuovo genere d’industria nel nostro Stato. Con quella somma si poté adattare la fornace della Colonia, e renderla capace di cuocere cannelle ad uso di fognatura, o come si dice con vocabolo forestiere di drenaggio. Di queste cannelle se ne poterono cuocere 120.000, delle quali parte servirono, e serviranno col tempo a migliorare quei terreni, e parte sono poste in vendita a vantaggio della Colonia”.
 
.La vita nella Colonia era organizzata in base ad uno Statuto organico nel quale era riportato anche il regolamento che disciplinava giornata dei Giovanetti.
 
Sono state rintracciate varie relazioni annuali sull’attività della Colonia nelle quali si dà conto delle attività svolte, delle spese sostenute e delle entrate registrate, della salute fisica e morale dei giovani ospiti.
 
“Fin dal 1869, Don Cocchi aveva lasciato la direzione della Colonia nelle mani di Don Giuseppe Chelotti. In quegli anni, l’avvicendarsi continuo di maestri e coadiutori aveva nuociuto alla regolarità della casa ed alla formazione dei giovani. All’inizio del 1873 il Direttore si era dimesso e, dopo pochi mesi, anche il successore lasciò l’incarico, che ritornò così nelle mani di Don Cocchi. Il 30 novembre del 1874 la “Gazzetta Piemontese” aveva pubblicato un violento articolo accusando “il personale dirigente della Colonia agricola di trattare crudelmente i giovani ricoverati”.
 
La Direzione dell’Opera degli Artigianelli, dopo aver convocati “Don Cocchi e i Rettori della Colonia e del Riformatorio, onde deliberare definitivamente sul da farsi relativamente alla Colonia, per rimediare ai gravi disordini che attualmente ne disturbano l’andamento”, nel marzo 1876 stabilì: “ stante le cattive condizioni in cui si trova attualmente la Colonia Agricola di Moncucco” che non si accettassero altri giovani dal carcere correzionale di Torino e che l’istituzione fosse trasformata “in ricovero per i fanciulli abbandonati, di età minore di anni 14, affittandone i beni”. Lo stesso Don Cocchi doveva riconoscere che nel quinquennio 1870-75 i ragazzi evasi erano stati sessantuno e che nell’anno 1875-76 il numero complessivo dei giovani era sceso da 71 a 41.
 
Nel settembre del 1876 il segretario del Collegio dell’Opera degli Artigianelli, annotava sul verbale: “aperta la seduta verso le ore quattro pomeridiane, il Rettore e il Direttore Peretti fanno la relazione del viaggio da essi fatto in Francia (...). Come risultato delle loro osservazioni essi, nella considerazione che presentemente l’Associazione di Carità non ha sufficiente personale disponibile per la direzione della Colonia Agricola di Moncucco e d’altronde non ha mezzi sufficienti per procurarselo per mezzo di proporzionati stipendi, propongono di vendere la stessa Colonia e di impiantarne un’altra, pe rora in minori proporzioni, presso Torino, collo scopo di tenervi i ragazzi di età minore di 12 anni, ed una squadra di giovani di età fra i 10 e 16 anni raccolti dalle altre due case, fra quelli che mostrassero disposizione alle professioni agricole, allo scopo di esercitarli alla coltura degli orti, dei giardini e delle vigne”.
 
Tutti i beni immobili e mobili della colonia di Moncucco furono acquistati da certo avv. Musso di Genova, per la somma di L. 115.000, pari a più del doppio di quella versata nel 1854 per l’acquisto del medesimo terreno.
 
Intanto a Moncucco, durante un’assenza di Don Cocchi, si erano verificati gravi disordini. Il segretario della Direzione di Torino gli scrisse, esprimendogli il rincrescimento e invitandolo a sollecitare lo scioglimento della casa ed il Murialdo andò prontamente sul posto per parlare ai giovani in tono paterno, ma serio e severo.
 
La decisione di abbandonare definitivamente Moncucco riuscì assai penosa per Don Cocchi, com’è naturale. Una sua lettera, inviata a Don Costantino e datata alle ore tre del mattino della prima domenica di avvento del 1877, documenta in modo drammatico il suo stato d’animo, rivelandone nel tempo stesso il temperamento e l’acuta tensione che era venuta creandosi tra lui e i membri della Direzione e lo stesso Murialdo, il quale aveva, ormai da quattro anni, fondata una Congregazione religiosa tra il personale insegnante e assistente del Collegio degli Artigianelli. Stralciamo le seguenti significative espressioni: “pare a te che possa tornare indifferente ad un padre la morte d’una figlia, per la quale portava un amore sviscerato? Pazienza, mi rassegnerei anche più volentieri, quando la morte sopravvenuta fosse stata naturale; ma vedermela uccisa e sacrificata! E, quel che maggiormente deve accrescere il mio dolore, essere obbligato ad assistere ai suoi funerali! Oh, Costantino, non disturbarmi maggiormente! E se è varo che tanto diventa amara la perdita di una creatura che tanto abbia costato ad allevarla, immaginati il mio dolore quanto debba essere intenso: dovermi vedere, sotto i miei occhi, a venderne le spoglie di questa creatura, che Dio solo sa quanto mi abbia costato... Ma lasciamo perdere le nenie: il sacrificio è compiuto e coglio compierlo generosamente, tutto fiducioso nel Signore, che saprà (spero) tenermente conto.
Del resto senti, Costantino, io ti richieggo d’un favore, ed è che tu mi faccia questo onore di credere alal sincerità della mia benevolenza, epperciò ti assicuro che la mia intenzione fu sempre quella di venire vicino, presso di te, per aiutarti a portare cotesto peso, che veggo anche un poco superiore alle tue forze; e siccome fui io che concorsi ad indossartene, sento tutto il dovere di non abbandonarti e lasciarti in balia della sventura: a queste parole vorrei che mi credessi. E poi fammi questo altro piacere: di non unirti anche tu al coro di coloro che per timidità o per non avere disturbi mi fanno l’opposizione; che in questo caso trovandomi precisamente nella condizione di Giobbe, potrei rispondere a quelli che dicono di volermi bene, che sono amici importuni; ed a te, che figureresti la moglie, ripeterti: quasi una de stultis mulieribus locuta es. Dunque zitto, né inquietarti, né inquietarmi.
Perdiego! che sia diventato un imbecille, rimbambito, folle, matto! Ma e che cosa in fin dei conti domando? Lasciatemi correre la mia via. Che cosa altro volete da me? Se del mio ho niente, ho mai avuto niente e voglio niente. Lasciatemi correre la mia via. Disposto, dispostissimo, come S. Giovanna Francesca de Chantal, di passare sopra a quanto possa aver di più caro per correre la mia via. Questa è la risposta alla tua lettera e a quella dell’Ing. Peretti, quale con tutto ciò amo, come amo altresì tutti coloro che gliela hanno ispirata; l’intenzione dei quali rispetto, ma, con gran rammarico, nel presente fattispecie, non divido, e quindi per non mettermi nell’occasione di offendere la carità, per ora me ne tengo isolato... e corro la mia via”.
 
Le relazioni tra Don Cocchi e la Direzione Superiore dell’Associazione di Carità da lui fondata furono difficili fin dai primi anni. Don Cocchi, infatti, non aveva particolari attitudini né capacità amministrative, né la costanza era sua virtù caratteristica. La Direzione, invece, aveva come compito precipuo quello di garantire l’amministrazione corretta ed oculata e di consolidare le opere esistenti. Da un lato c’era uno spirito vulcanico, sempre aperto a nuove idee e facilmente disposto a correre nuove avventure; dall’altro c’erano uomini che basavano la loro azione soprattutto sulla prudenza, che non esclude lo zelo, ma vagli alle circostanze, le forze e i mezzi in ordine al conseguimento del fine comune a tutti: l’educazione umana, professionale e cristiana della gioventù povera, abbandonata e operaia.
 
La prima colonia agricola fu un modello per altre, realizzate sotto la supervisione di Don Cocchi in altre regioni italiane. Fermando, per ora, il resoconto delle vicende della Colonia e delle altre iniziative che videro impegnato Don Cocchi, si può ritenere che oltre al carico di attività che lo vedevano peregrinare da un luogo all’altro, spesso trascurando i doveri di buona amministrazione, egli pagò una certa organicità con le figure di spicco al governo e per questo finì inviso alla Curia vescovile torinese, in un periodo in cui tra Stato e Chiesa non correvano buoni rapporti. Senza le innovazioni di cui fu capace, rette da un’energia e da una pervicacia prodigiose, la Storia non avrebbe, probabilmente, preso la stessa piega. Oggi la Chiesa venera figure sante, i cui frutti sono evidenti e la cui condotta nel lungo termine è stata vincente; è tuttavia doveroso ricordare anche chi gettò le fondamenta di opere straordinarie.
 
Sui rapporti tra l’azione condotta da Don Cocchi e quella sviluppata da Leonardo Murialdo, segnalo l’articolo «Un mestiere è come una cascina su cui non grandina mai», di Giovanni Ricciardi, che si sviluppa lungo un intervista a Don Giovenale Dotta, sul sito http://www.30giorni.it
 
Anche le relazioni tra Don Giovanni Cocchi e Don Giovanni Bosco possono incuriosire il lettore. Su questo tema stiamo lavorando per proporre un documento organico. Per ora, segnalo i seguenti riferimenti:
 
Nel sito: http://www.santibeati.it, ritroviamo Don Cocchi sia nella pagina dedicata a San Giovanni Bosco sia in quella di San Leonardo Murialdo.
 
    La prima traccia...
 La Cascina carossano nel regio decreto del 1848
 
 La Cascina carossano nel regio decreto del 1851
TENIMENTO detto di Moncucco, sotto l’Ufficio di Villanova d’Asti, nei territorii di Moncucco e Vergano (compreso nella Tabella annessa al R. Decreto 2 novembre 1848), con castello , e dieci distinti corpi di cascine denominati Aja , Morlenghetto, Bricco, Perrino, Roasine, Verbia, Pogliano, Grisella, Morlengo e Carossano , con beni aggregati, della superficie tra campi, prati e vigne di giornate 656 62, di ettari, 250 are 19 centiare 81.
Molino a grano detto della Trivessa con due ruote , composto di fabbricato rustico e piccolo campo attiguo, di tavole 95 11, di are 36 centiare 55.
N° 15 pesse Bosco ceduo di giornate 337 79, di ettari 128 are 71 centiare 12.
Il tutto proveniente da devoluzione feudale , affittato li 30 dicembre 1842 a Carozzi D. Giacomo (or defunto) dall’11 novembre 1841 sino all’11 novembre 1856 dell’annuo reddito di Lire 20960
La Cascina di carossano nell’atto di vendita a don cocchi
Cascina posta nel centro dei beni alla medesima aggregati denominata di Carossano composta da ampia stalla, fenile, pollaio, tre camere al pian terreno e tre superiori, cantina e tinaggio, pozzo d’acqua, forno, aja davanti, tampa pel letame e prato coi numeri del tipo demaniale quarantacinque, quarantasei, quarantasette, quarantotto, e cinquanta non esistendo numeri di mappa di Moncucco.
Campo attiguo col numero quarantaquattro.
Grande pezza coltivo ivi al numero cinquantuno.
Vigna dietro casa col numero quarantatre.
Vigna regione della Valletta col numero quarant’uno.
Campo id(?) col numero quarantadue.
Campo ivi col numero quaranta.
Vigna attigua col numero trentanove.
Campo inferiormente col numero trent’otto.
Gerbido al Gorgo col numero trentaquattro.
Prato detto il prato grande parte compresa piccolo orto e grande sorgente perenne col numero quarantanove.
…..Sotto…. della strada alevante col numero trentasette e mezzo
Prato nella regione Carere detto del Molino numero tredici, quattordici e parte del numero dodici.
Vigna detta la vigna magra colli numeri cinquantatre e cinquantaquattro
Bosco e grebido nella regione Oliva col numero cinquantadue.
Bosco nella regione Garrae al numero centodue
Bosco nella regione Carossano col numero trentatre.
Tutti retrodescritti Beni componenti la Cascina Crossano ….. del quantitativo di giornate centoventi una tavola trenta equivalenti ad ettari quarantasei, are dieci centiare conquantadue come risulta dalla perizia Pancotto dei trenta maggio mille ottocento cinquant’uno.
Tenuti in affitto assieme a tutti gli altri beni di antica devoluzione feudale dagli Eredi del fu Giacomo Carozzi per anni quattordici consecutivi principiati li undici novembre mille ottocento quarantadue e finiti li undici novembre mille ottocento quarantasei in forza di atto passato all’Intendenza Generale di Finanze li trenta dicembre mille ottocento quarantadue per l’annuo fitto di lire ventimila trecento sessantanove ora ridotto a lire ventimila trecento sessantanove attesa l’occupazione di terreno fatta per le strade di Briano e Valvergnano. L’asta sarà aperta sul prezzo di lire quarant’otto mila quattrocento L. 48,400 senza riguardo all’estimo portato dalla precitata perizia Pancotto.
Condizioni generali
La vendita avrà luogo ai pubblici incanti ed all’estinzione della candela vergine in favore del miglior offerente con intervento del Direttore Demaniale del Circolo o di quell’altro ufficiale che, in caso d’impedimento, verrà da questo delegato nel giorno, ora e modo che saranno fatti noti al Pubblico con apposito avviso.
In detto avviso saranno indicati la qualità, quantità dei beni, loro situazione, regioni, e confini le altre specialità che l’aspirante all’acquisto ha interesse di conoscere.
 
La Storia
La Relazione annuale del 1861. La Relazione annuale del 1862. La Relazione annuale del 1864.